Ho il cuore in bocca e cerco le proporzioni giuste per affrontarti, adesso sono un poco consapevole della tua dichiarazione d'esistenza e spingo il mio spirito in direzioni sensoriali avanzate. Dovrò in qualche modo spegnere la ragione ed affidarmi totalmente ai miei sensi."
Eugenio lo scrive sulla sua moleskine, poi la posa sul comodino di fianco e spegne la abatjour. Sono più o meno le undici di sera e domani sarà una lunga giornata. I suoi occhi conservano ancora dei granelli di luce e nel buio della stanza essi appaiono come dei pianeti nello spazio. Eugenio pensa a quello che ha appena scritto nell'agenda e d'un tratto gli viene in mente sua madre, la sua condizione di donna nel mondo.
I granelli di luce intanto si sono raggruppati in un lungo filo e ora prendono a muoversi a spirale creando una grande conchiglia colorata. Eugenio si lascia andare a seguire quella forma e gli sembra di abbandonare la sua fisicità, è come scrollarsi di dosso la pesantezza del corpo e abbandonare la gravità. Non esistono più le palpebre degli occhi, nè le braccia e le gambe. I muscoli si sono uniti all'aria, e questa adesso è tutte le cose nella stanza, di conseguenza non esiste più una stanza ma solo un grande buio fatto di luce.
Un brusco movimento del letto lo riporta indietro, dopo poco il suono ripetitivo della sveglia gli annuncia l'ora: sono le cinque di mattina. Apre un occhio e vede il ginocchio di suo padre che dà un altro colpo al materasso, "Eugè andiamo".
Mentre si mette in piedi ha un ricordo del sogno fatto durante la notte, decide così di portarsi dietro la moleskine. Durante il viaggio proverà a far funzionare la memoria.
Dopo l'unica fermata per cornetto e caffè, i nostri si dirigono al bosco dove andranno a raccogliere gli asparagi. Adesso Eugenio è col padre in macchina e può tranquillamente mettersi a scrivere il suo sogno:
"Così tanti sogni stanotte che ho confusione a ricordarli. Vengono alla mia mente come le onde del mare, confuse e precise. Mi sembra di stare scalando una parete di roccia ma poi si cambia scena e sono nella Francia della ghigliottina e osservo (con quale occhi?) la mia testa riposta nella cesta. Ha un'espressione il mio bel viso che non avrei mai immaginato. La bocca aperta e gli occhi chiusi, la barba è folta e mi sembra di essere tranquillo oppure morto. Sarò stato ladro oppure un agitatore politico ma mi trovo in Sardegna con i miei genitori. Non ho mai visto l'isola, non ci sono mai stato, ma dicono che siamo lì e tanto basta. Siamo in casa di una famiglia che è fissata per l'ospitalità. La madre e i figli ci invitano a sedere intorno al tavolo, tutti in cerchio, e per un pò si stà così, zitti e fissandoci l'un l'altro. Il tavolo è coperto da un lenzuolo bianco avorio che cela qualcosa al di sotto. Infatti dopo poco il padre si alza e tira via il lenzuolo, con gesto deciso ma plateale, scoprendo una tavola imbandita di formaggi. I padroni di casa ci obbligano, a buon viso, ad assaggiarli uno per uno tutti quanti (una tortura). Il capo famiglia posa davanti a me un coltello ben affilato che teneva in tasca e mi consiglia di tagliarli con quello, "alla vecchia maniera" come dice lui. Affondo la lama su una mozzarella fresca e ne vedo uscire abbondante latte, ne metto un pezzo in bocca e il palato esulta, è meravigliosamente buona. Dico a mia madre che deve per forza assaggiarla e le passo il piatto. Mentre le porgo il piatto mi accorgo che al posto della mozzarella c'è un grosso fegato crudo. Ne manca un pezzo quindi capisco di aver masticato e assaporato un pò di quel fegato. Mi giro per guardare mio padre e mi ritrovo dentro una chiesa sulla navata centrale e guardo il crocifisso. Mio padre è di fianco all'altare e mi guarda con un sorriso di luce, poi allarga le braccia e mi invita al suo petto. Sento un calore immenso mentre corro verso di lui, guardo di fianco e le pareti interne della chiesa sono in fiamme. Fiamme bellissime, dense. Il profumo del legno che brucia mi stordisce e mi confonde, alzo gli occhi al crocifisso e mi accorgo che non c'è più, è vuoto. Cerco mio padre e sono a Venezia, lungo una banchina con gente che fa il bagno in quell'acqua verde e maleodorante. Ci sono anch'io nell'acqua ed è una sensazione piacevole fino a quando cerco di salire sulla banchina, ma come sporgo la testa mi accorgo di due piedi con le unghie colorate di rosso che non mi permettono la salita. Dopo un pò di prove mi arrabbio e scanso i piedi in malo modo. Appena su inizio a inveire contro la signora e dopo una lite furibonda la butto in acqua con relativa sdraio. Un'altra signora che ha assistito alla lite mi dice: -giovanotto non si buttano le signore in acque tanto belle!-"
Il sogno è una componente fondamentale per gli uomini, da lì si ricavano le giuste considerazioni sulla vita, la società, il modo di stare al mondo. Il padre di Eugenio era in una chiesa in fiamme, perché? E perché il crocifisso era vuoto? Cosa vuol dire aver masticato un pezzo di fegato crudo? Che ci faceva, in Francia, la sua testa tagliata immemore di averlo fatto? Sono domande che Eugenio si sta ponendo mentre filano con la macchina verso il bosco, pensando che un tuffo nella natura forse gli permetterà di tirare la somma fra questi sogni e il suo malessere, provato dopo aver scritto sulla moleskine la sera prima. Eugenio si sente a un passo dal capire qualcosa di importante, di se stesso e della sua vita, ma è perfettamente cosciente che questa sensazione è molto più grande di lui. Per questo deve "spegnere la ragione e affidarsi totalmente ai sensi".
"Eugè, vedi che dove stiamo andando...il bosco, la natura non ci vuole. Siamo diventati estranei noi alla natura. Abbiamo bisogno di chiedere permesso, quindi appena arriviamo dobbiamo fare pipì all'aria aperta, vicino a un albero e raccomandati di farla sulla terra non su una roccia! Noi uomini ci siamo dimenticati la bellezza che abbiamo sotto ai piedi, ci siamo messi le scarpe Eugè..." Anche da solo il padre andava per i boschi a respirare a pieni polmoni dell'aria frizzante che solo gli alberi alle sei di mattina sanno dare. Un tempo aveva la passione della fotografia, ora si accontentava della macchina fotografica del telefonino. Durante il viaggio aveva mostrato ad Eugenio una foto scattata alle montagne coperte di nuvole, il tutto sembrava assomigliare ad un mare bianco con un arcipelago di isole rappresentate dai cocuzzoli sgombre dalla nebbia. Se avesse avuto ancora la sua macchina fotografica, avrebbe di certo fatto vedere, attraverso i suoi occhi, quella bellezza di cui parlava. "La bellezza, l'armonia...l'unica strada contro una crisi" e la moleskine accettò in silenzio questa verità completa e personale.
Ciao Francesco,
RispondiEliminaAvevo solo il blog come contatto. Ti volevo dare il link alla lettera di mia moglie sul caso Cucchi:
letteraapertacucchi.blogspot.com
I pezzi citati in giornali danno un impressione falso. Ho scritto a Il Fatto, nella speranza che lo pubblicano.
Spero che ti stai bene.
Daniel
Alibi di Elsa Morante
RispondiEliminaSolo chi ama conosce. Povero chi non ama! Come a sguardi inconsacrati le ostie sante, comuni e spoglie sono per lui le mille vite. Solo a chi ama il Diverso accende i suoi splendori e gli si apre la casa dei due misteri:
il mistero doloroso e il mistero gaudioso. Io t'amo. Beato l'istante che mi sono innamorata di te.
Qual è il tuo nome? Simile al firmamento esso muta con l'ora. Sei tu Giulietta? o sei Teodora? ti chiami Artù? o Niso ti chiami? Il nome a te serve solo per giocare, come una bautta. Vorrei chiamarti: Fedele; ma non ti somiglia. La tua grazia tramuta in un vanto lo scandalo che ti cinge. Tu sei l'ape e sei la rosa. Tu sei la sorte che fa i colori alle ali e i riccioli ai capelli. La tua riverenza è graziosa come l'arcobaleno. Sono i tuoi giorni un prato lucente dove t'incontri con gli angeli fraterni: il santo, adulto Chirone, l'innocente Sileno, e i fanciulli dai piedi di capra, e le fanciulle - delfino dalle fredde armature. La sera, alla tua povera cameretta ritorni e miri il tuo destino tramato di figure, l' oscuro compagno dormiente dal corpo tatuato. Tu eri il paggio favorito alla corte d'Oriente, tu eri l'astro gemello figlio di Leda, eri il più bel marinaio sulla nave fenicia, eri Alessandro il glorioso nella sua tenda regale. Tu eri l'incarcerato a cui si fan servi gli sbirri. Eri il compagno prode, la grazia del campo, su cui piange come una madre il nemico che gli chiude gli occhi. Tu eri la dogaressa che scioglie al sole i capelli purpurei, sull' alto terrazzo, fra duomi e stendardi. Eri la prima ballerina del lago dei cigni, eri Briseide, la schiava dal volto di rose. Tu eri la santa che cantava, nascosta nel coro, con una dolce voce di contralto. Eri la principessa cinese dal piede infantile: il Figlio del Cielo la vide, e si innamorò. Come un diamante è il tuo palazzo che in ogni stanza ha un tesoro e tutte le finestre accese. La tua dimora è un'arnia fatata: narcisi lontani ti mandano i loro mieli. Per le tue feste, da lontani evi giungono luci, come al firmamento. Ma tu in esilio vai, solo e scontento.
Il mio ragazzo non ha casa
né paese. La bella trama, adorata dal mio cuore, a te è una gabbia amara. E in tua salvezza non verrà mai la sposa regina del labirinto. Per il sapore strano del bene e del male la tua bocca è troppo scontrosa. Tu sei la fiaba estrema. O fiore di giacinto cento corimbi d'un unico solitario fiore! La folla aureovestita del tuo bel gioco di specchi a te è deserto e impostura.
Ma dove vai? che mai cerchi? invano, gatta - fanciulla, il passaggio d' Edipo sul tuo cammino aspetti. O favolosa domanda, al tuo delirio non v'è risposta umana.
Riposa un poco vicino a chi t'ama angelo mio. Quando mi sei vicino, non più che un fanciullo m'appari. Le mie braccia rinchiuse bastano a farti nido e per dormire un lettuccio ti basta. Ma quando sei lontano, immane per me diventi. Il tuo corpo è grande come l'Asia, il tuo respiro è grande come le maree. Sperdi i miei neri futili giorni come l'uragano la sabbia nera. Corro gridando i tuoi diversi nomi lungo il sordo golfo della morte. Riposa un poco vicino a chi t'ama. Lascia ch'io ti riguardi. La mia stanza percorri spavaldo come un galante che passa in una strage di cuori. Allo specchio ti miri i lunghi cigli ridi come un fantino volato al traguardo. O figlio mio diletto, rosa notturna! Povero come il gatto dei vicoli napoletani come il mendico e il povero borsaiolo, e in eleganza sorpassi duchi e sovrani risplendi come gemma di miniera cambi diadema ogni sera ti vesti d'oro come gli autunni. Passa la cacciatrice lunare con i suoi bianchi alani... Dormi. La notte che all' infanzia ci riporta e come belva difende i suoi diletti dalle offese del giorno, distende su noi la sua tenda istoriata. Nella funerea dimora, anche di te mi scordo. Il tuo cuore che batte è tutto il tempo. Tu sei la notte nera. Il tuo corpo materno è il mio riposo.
Elsa Morante
Non so perché ma mi è venuta in mente questa.
grazie, infinitamente.
RispondiElimina